Rossella Valdrè, psicoanalista freudiana, e Renzo Zambello, psicoanalista junghiano, si confrontano sui maestri, sulle scuole, sulle nevrosi, su transfert e controtransfert, sulle parole e i silenzi, sui rischi che si celano dietro una professione affascinante e …complicata
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Li ho conosciuti attraverso i loro libri. Di Rossella Valdrè, freudiana, ho letto prima La morte dentro la vita. Riflessioni psicoanalitiche sulla pulsione muta, poi Sulla sublimazione. Due splendidi libri. Di Renzo Zambello, junghiano, ho divorato Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista. A entrambi ho chiesto di rispondere, da una prospettiva diversa, a venti domande identiche per aiutare il lettore a comprendere che cosa accade dentro la “mitica” stanza e chi sono davvero le due persone che hanno deciso di partire per un lungo “viaggio”.
Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?
Rossella Valdrè: Resterei fedele alla definizione freudiana: un metodo di conoscenza e di cura che ha, unico tra tutti gli strumenti di cura, per oggetto l’inconscio. A livello individuale serve, o dovrebbe servire, a metterci in condizione di conoscere noi stessi, secondo il principio socratico, e in base a questa accresciuta conoscenza dirottare diversamente le nostre scelte e la nostra posizione nel mondo; serve a ridurre le rimozioni e quindi i sintomi nevrotici, che sono frutto della rimozione; questo apre il grande capitolo dell’analisi oggi, epoca in cui le patologie da rimozione, a differenza dei tempi di Freud, sono meno frequenti. Ma questo è un capitolo a sé. Vorrei dire che la psicoanalisi non si limita a essere una cura, essa é una Weltanschauung, una visione del mondo, con la quale possiamo interpretare e dare senso ai fenomeni collettivi, sociali, artistici. Alla domanda se si tratti o no di una scienza, altra questione dibattuta, direi che la trovo una questione oziosa: non abbiamo bisogno che la psicoanalisi risponda a requisiti scientifici. A mio parere, è più vicina all’arte che alla scienza.
Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?
R.V. Personalmente, avevo due ragioni. Diventare a mia volta analista, dopo la specializzazione in Psichiatria, e curarmi. Curarmi e conoscermi. All’inizio la spinta terapeutica (sono sempre stata un soggetto piuttosto depresso) era la maggiore, col tempo il desiderio di conoscenza ha avuto il sopravvento.
R.Z. Per due motivi. Il primo era che avevo bisogno, stavo male. Il secondo, a sedici anni avevo capito e deciso che nella mia vita averi fatto lo psicoanalista.
Come scelse i suoi analisti?
R.V. Ero giovane, non possedevo gli strumenti di oggi. Scelsi in base alla prima impressione, alla disponibilità, a cosa mi fu raccomandato e fui fortunata, trovai un buon analista. Oggi i miei criteri sarebbero diversi, più personali e più legati all’orientamento anche culturale dell’analista.
R.Z. Cercando. Il rapporto psicoanalitico ma, direi, ogni rapporto psicoterapeutico, è anzitutto un rapporto tra due persone e, come tutti i rapporti, può funzionare o non funzionare. C’è una vasta letteratura sullo specifico tema della scelta dello psicoterapeuta. A sua volta, il terapeuta deve chiedersi, prima di iniziare un percorso terapeutico: ci sono i presupposti per questo percorso? È per questo motivo che propongo a tutti i pazienti che si presentano in studio per la prima volta chiedendomi un’analisi, di incontrarci almeno tre volte prima di decidere cosa fare assieme. Lo scopo è di verificare se ci sono motivazioni sufficienti. Insomma, darci il tempo di scegliere.
Che cosa occorre per fare un ottimo analista?
R.V. Ottimo non saprei, non bisogna idealizzare. Un buon analista è frutto del connubio tra talento personale, intendo talento analitico, una cosa che non si impara, come non si impara nessun tipo di talento, artistico o altro, e una buona formazione, che comprende i due pilastri dell’analisi personale e del training. Aggiungerei che le rispondo come rispondeva Bion a chi gli chiedeva come scegliere i nuovi analisti alle selezioni: che amino la letteratura, il cinema, l’arte. Un buon analista è un soggetto appassionato alla cultura, a tutto ciò che rende erotica, fonte di piacere, la parola e il pensiero.
R.Z. No, questo non lo so proprio. Bisognerebbe sentirsi un ottimo analista per rispondere. Nessuno si può mai sentire ottimo, certamente non io. Comunque, le doti minime essenziali per essere un analista sono: conoscersi, avere una buona capacità empatica e saper stare, come diceva Bion, davanti al paziente “senza storia e senza aspettative”. Significa essere capaci di cogliere il paziente nelle sua realtà. Solo allora sarà possibile che nel rapporto si generi qualcosa di nuovo. Ecco, questa è una delle grandi differenze tra junghiani e freudiani. Freud diceva che il terapeuta deve star lì in seduta con il paziente fungendo da schermo bianco. Jung parla di coinfezione con il paziente. Paragona l’analisi a un crogiolo che separa e purifica. È chiaro, in quel crogiolo è immerso anche l’analista.
Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?
R.V. Le troppe scuole di psicoterapia che il ministero ha legalizzato negli anni ’90 hanno creato un enorme mercato che confonde il pubblico, annacqua la vera psicoanalisi che fatica, agli occhi dell’opinione pubblica a distinguersi. Tutti dicono che ‘vanno dall’analista’ e in realtà non ci va quasi nessuno; un orientamento serio avrebbe reso legale solo una piccola parte di queste scuole, scegliendo tra gli orientamenti psicoanalitici, cognitivisti, ecc… Non credo crei confusione, invece, la storica separazione tra le scuole freudiane, lacaniane e junghiane, perché in questo caso il pubblico che vi si rivolge è in genere già orientato e capace di scegliere. Diciamo che oggi, in genere, l’offerta “psico” è eccessiva e pertanto confusa, a scapito della qualità.
R.Z. Al paziente importa poco la formazione del terapeuta, ne capisce anche poco. Al paziente interessa che il terapeuta lo capisca.
Perché ritiene Freud/Jung il più convincente dei maestri?
R.V. Be’, non avrei dubbi. Tutto il resto dipende da Freud, non ci sarebbe Lacan senza Freud, probabilmente non ci sarebbe neppure Jung, che si è distinto per differenza, ma sempre separandosi da Freud. Freud era un genio che ha non solo inventato un metodo di cura rivoluzionario, ma ha cambiato il nostro mondo, ha cambiato l’uomo del ‘900, non saremmo quelli che siamo, in Occidente, senza la psicoanalisi.
R.Z. Dico Jung perché era un folle e sapeva d’esserlo. Conosceva la potenza creatrice e distruttrice della follia, dell’inconscio e degli archetipi che lo costellano. La psichiatria con lui è passata da un elenco di comportamenti anomali alla possibilità di capire quali energie si muovano nel profondo.
Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?
R.V. A diventare soggetti. Il maggior impegno di un individuo, come diceva Freud in ’Nuove considerazioni sulla guerra e la morte’, è pur sempre sopportare la vita. Può sembrare una visione un po’ prosaica e pessimista, eppure è vero: sopportare la vita è il maggior dovere di ogni vivente, scriveva nel 1915. Intendeva dire sopportare il peso della responsabilità, non delegare, diventare, cioè, dei soggetti, capaci di scelta. Siamo impegnati lungo tutto il corso della vita a diventare soggetti, non è affatto un’impresa scontata, e qualcuno non ci riesce mai. Di nuovo tocchiamo un tema, la soggettività e la conseguente nozione di responsabilità che vi è connessa, su cui oggi ci interroghiamo: la soggettività e la responsabilità non sono più al centro degli interessi dell’uomo contemporaneo.
R.Z. Per rimanere nel giardino di Hillman, siamo chiamati a fare i giardinieri. Il compito dell’analista è permettere alla pianta di crescere. Noi dobbiamo solo dissodare la terra. La pianta, piccola o grande che sia, ha già in sé la potenza per diventare ciò che è. L’analista non può aggiungere nulla ma solo favorire e a volte permettere la crescita.
Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?
R.V. Di solito è il paziente. L’analizzando che sente di stare meglio, di poter fare da sé, ne parla con il suo analista e si conviene per il finire. In una buona analisi la decisione si fa viva nel tempo e appare nel transfert, nei sogni, nel materiale, nessuno la impone all’altro. A volte il paziente interrompe prima, per fuga nella salute, l’emergere di difese, la paura della dipendenza….ci sono molte situazioni. Idealmente, il paziente dovrebbe aver avuto accesso a parti di sé stesso che non conosceva, dovrebbe aumentare la capacità di simbolizzazione e sublimazione, essere più limato il narcisismo a favore del legame oggettuale…ma ognuno, in una cura così singolare, si cuce addosso da sé l’abito adatto, non ci sono risposte univoche. Freud considerava la ’normalità’ come capacità di amare e lavorare. Direi che è un principio ancora valido.
R.Z. L’analisi finisce quando non serve più. Fin che c’è bisogno, l’analisi ha senso. Certo anche in analisi si possono creare tematiche di dipendenza. Così come i figli che non riescono a uscire da casa. È chiaro che se questo succedesse, qualcosa non ha funzionato. Lo scopo dell’analisi è favorire la crescita e crescere significa distaccarsi, separarsi. Quindi, paradossalmente, l’analisi aiuta a separarsi, a staccarsi. Certo, ognuno con i sui tempi e le sue difficoltà.
Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?
R.V. Va premesso che le nevrosi classiche, isteria e nevrosi ossessiva, non sono certo scomparse ma non sono più la psicopatologia elettiva con cui lavoriamo più frequentemente, come ai tempi di Freud, dove la stessa psicoanalisi si inaugurò con l’isteria. Tuttavia le forme isteriche, commiste a quadri di personalità extranevrotiche a tipo borderline o narcisistiche sono piuttosto frequenti. Le più gravi nevrosi che mi trovo a incontrare oggi, mantenendo l’accezione corretta del termine nevrosi, sono alcune forme isteriche importanti, con vissuti depressivi e sintomi di conversione incistati nel corpo, tenaci, con comportamenti autodistruttivi, o molte situazioni che esordiscono con il panico, che alcuni considerano una forma d’isteria moderna, ma il panico non si può considerare una nevrosi. Si incontrano poi con molta frequenza forme non nevrotiche, non psicotiche, vissuti di apatia e vuoto, mancanza di senso nella vita, forme di sofferenza che non si presentano al divano di Freud, e verso le quali la psicoanalisi vive una sfida, perché a rigore non sarebbero indicate alla psicoanalisi classica.
R.Z. Fino a dieci anni fa vedevo, come penso tutti i miei colleghi, pazienti che soffrivano di attacchi di panico. Ora, tanti pazienti classificabili come borderline, prevalentemente narcisisti. La sofferenza è sempre più profonda.
Curano di più le parole o i silenzi?
R.V. Entrambi. A seconda dei momenti, nella seduta o in quella particolare fase dell’analisi. Oggi è tramontato il silenzio eccessivo, un po’ caricaturale dei primi analisti, un malinteso senso della neutralità analitica, e il silenzio si può ritenere diverso anche a seconda della posizione teorica di un analista: in senso generale, un freudiano classico tenderà a intervenire meno di un analista kleiniano, a esempio. Ma sono differenze che non ritengo importanti. La parola, certamente, cura. La parola è un balsamo, la parola è veicolo di piacere, senso, emozione. A volte, con i pazienti che citavo sopra a scarsa capacità di rappresentare, è sufficiente la messa in parola da parte dell’analista per osservare dei miglioramenti. Credo che abbia ragione Lacan nel sostenere che la parola che cura non dovrebbe essere parola vuota, meglio il silenzio allora, questo però non giustifica a mio avviso il taglio della seduta.
R.Z. Non c’è in terapia un atteggiamento giusto a priori. Paziente e terapeuta sono lì, in un rapporto unico e irripetibile. Solo la sensibilità del terapeuta, la sua capacità di capire può trasformare quel momento da un’ennesima esperienza di coazione a ripetere in qualcosa di nuovo.
Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?
R.V. Metaforicamente sì; dopo una certa identificazione, come col genitore, va superato. L’analisi riproduce la vita con i primi oggetti, che per noi sono stati i genitori, e dai genitori occorre separarsi. Se il processo avviene bene, l’analista viene interiorizzato come un buon oggetto che andrà a comporre il mondo interno del paziente, e lo farà in futuro sentire meno solo. Credo che dopo un’analisi si diventi, inevitabilmente, un po’ più soli e un po’ più capaci di tollerare la solitudine.
R.Z. È incredibile come facciamo fatica a capire anche quando siamo di fronte all’evidente. È potente la metafora freudiana del complesso di Edipo, ma Sofocle non dice affatto che la soluzione sta nell’uccisione del padre. Anzi, il contrario. È vero che sprechiamo tante energie nell’invidia per chi, a nostro parere, è più potente, bello, fortunato o capace, ma la soluzione non è mai nell’uccisione del padre o chi per lui, ossia nell’annullamento di questa tensione invidiosa. Per Sofocle, Edipo dopo che ha ucciso il padre Laio, si acceca. Non potrà più vedere niente del mondo, sprofonderà nelle tenebre. E allora? Allora, la soluzione è accettarci per come siamo. Un’accettazione che passa attraverso una conoscenza di noi stessi . Se riusciamo a far questo, forse ci accorgeremo che siamo già potenti quanto il padre e gli altri. I miei pazienti? Quelli che hanno finito l’analisi, fanno la loro strada. Sono ormai mentalmente distanti, anche se le confesso che spero pensino a me con sentimenti di riconoscenza. Spero che nessuno mi abbia ucciso.
Come si lavora per far crollare le resistenze?
R.V. I primi analisti, Reich in primis e altri, dedicarono ampi studi sull’analisi delle resistenze. Oggi questo interesse tecnico specifico è un po’ scemato, ma il lavoro sulle resistenze fa parte del bagaglio di ogni analista, che lo userà secondo il suo personale sentire e il suo orientamento. Si può procedere lavorando subito sulle resistenze, interpretandole nel transfert appena si presentano, nello stile kleiniano, o attendere un timing più opportuno, che trova il paziente più pronto, in uno stile più classicamente freudiano. Quale che sia lo stile, senza analisi delle resistenze, spesso subdole e occulte, non si procede. Non dimentichiamo la grande lezione di Freud del 1920: le persone vengono in analisi ma non vogliono guarire, non vogliono cambiare. Tutto il nostro lavoro, in quest’ottica, è un lavoro sulla resistenza.
R.Z. Ma io non voglio far crollare niente. Il rapporto analitico non è un campo di battaglia. Interpreto le resistenze ma lascio che il paziente le usi come e quando crede. Il mio compito è solo quello di dirgli come lui funziona, poi, fa quello che vuole. Sono sicuro che quello che lui sceglie è più vero, più originale di quello che posso pensare io. Le dicevo, sto davanti al paziente senza aspettative.
È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?
R.V. Entrambe. Non so se complicata è la parola giusta, certo impegnativa. Freud ritenne dapprima il transfert, poi anche il controtransfert, un ingombro, qualcosa da eliminare. Come è noto, sul transfert dopo l’analisi di Dora cambiò idea, sul controtransfert forse non ne ebbe il tempo. Da allora la visuale su questi concetti si è allargata molto, fino ad arrivare a oggi a correnti che vedono tutto come co-creato, tutto transfert e controtransfert; li trovo eccessivi, credo vadano mantenuti nella loro accezione classica. Perché è una gestione complicata? Perché ci coinvolge personalmente, non possiamo sottrarci, non possiamo ignorarlo. Beninteso, il transfert non è specifico della psicoanalisi, non lo ha inventato la psicoanalisi, si sviluppa in ogni relazione umana intima e significativa, ma solo la psicoanalisi lo usa, ne ha fatto un mezzo tecnico, terapeutico. In questo la terapia analitica si distingue da tutte le altre.
R.Z. Certamente del controtransfert, ovvero del mio vissuto emotivo nei confronti del paziente. Il controtransfert è uno dei cardini della psicoterapia junghiana. È Jung a volere che i futuri analisti dopo una analisi personale facciano una seconda analisi dove l’attenzione verterà proprio sulle motivazioni più profonde che spingono a voler fare il terapeuta. L’analisi specifica del controtransfert avverrà poi in sede di supervisione. Certo, per Freud è un po’ diverso. Se ci pensiamo, la posizione distaccata dell’analista freudiano classico gli permetteva di non avere così bisogno di analizzare il suo controtransfert, ma per lo junghiano il rapporto terapeutico prevede l’immersione nel crogiuolo analitico, ed è lì che nasce la necessità irrinunciabile della conoscenza del controtransfert. Per la verità, come l’analista non deve bloccare o modificare il transfert del paziente ma renderlo visibile all’interno del rapporto terapeutico, così egli non può tacersi o negarsi il controtransfert. Anzi, si servirà di quello per capire meglio il paziente. Faccio un esempio. Il paziente parla delle sue difficoltà e fantasie e il terapeuta si sente irritato. Egli si deve chiedere: perché il paziente mi vuole fare arrabbiare? Il controtransfert diventa allora, non una emozione che intralcia il rapporto, come dicevano Freud e Lacan, ma uno strumento in mano al terapeuta per capire meglio cosa sta succedendo.
Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?
R.V. Direi di sì. Non tanto dall’approvazione o meno del paziente, ma dalle sue associazioni, dal materiale della seduta successiva, nel tempo dai cambiamenti, sintomatici o meno.
R.Z. La buona interpretazione è quella che serve al paziente. Bisogna intendersi, non quella che suggestiona il paziente e magari gli fa dire: che bella! L’interpretazione utile è quella che semina dubbi, nuove possibilità nella mente del paziente. Può coglierle subito, spesso le contrasta, non le capisce ma intanto si depositano nel suo inconscio. Lavorano dentro di lui. Dico sempre ai pazienti, non preoccupatevi delle mie interpretazioni, queste sono come la Vitamina C, se ne abbiamo bisogno la utilizziamo, se non ci serve la eliminiamo e non succede niente. Vede, parto dal presupposto che è in me una certezza: l’inconscio del mio paziente e immensamente più ricco di quanto io possa cogliere. Le mie interpretazioni sono sicuramente molto, ma molto più povere di quanto lui ha in potenza. Quindi non mi preoccupo proprio della verità di una mia interpretazione. Questa è sempre e comunque una piccola parte del suo tutto. Però, come la Vitamina C, indispensabile se uno ne ha bisogno.
Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?
R.V. Lavoro parallelamente con tutti e due, la mia autoanalisi è imprescindibile dalla mia attività clinica. Non sarebbe pensabile l’una senza l’altra, non si può fare questo lavoro senza una costante autoanalisi, e nell’analizzare noi stessi non si può prescindere dal contributo degli altri, compresi i pazienti che entrano nel nostro mondo inconscio. Personalmente, essendo un’analista molto legata all’arte, al cinema, alla letteratura, tutte queste forme, questi linguaggi sono per me, e lo spero sempre per i pazienti, mezzi straordinari per toccare il mio inconscio.
R.Z. Lei lo sa bene, il sottotitolo del mio libro voleva essere: “Se ci sono riuscito io, ci potete riuscire tutti”. L’editore non ha voluto metterlo ma il senso era: guardate che io sono stato molto più matto di voi. Chi mi ha salvato? La mia caparbietà e l’incontro con analisti che hanno saputo ascoltarmi. Pertanto non mi stanco ma, soprattutto, non mi meraviglio mai per le difficoltà dell’altro. Io so che se lui vuole può e, il fatto che sia lì con me a cercare, è già indicativo per avere speranza.
Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?
R.V. In linea teorica, no. È sempre valido il ragionamento freudiano del ’37 di Analisi terminabile e interminabile: dovremmo periodicamente ri-analizzarci, il processo non ha mai fine. Bisogna però fare i conti con la realtà e con le richieste pressanti del paziente contemporaneo; a volte analisi brevi, se assumiamo di lavorare su un focus, o su situazioni post-traumatiche, reattive, possono essere efficaci. Non si può essere brevi nei disturbi di personalità, a esempio. È importante quindi il discrimine diagnostico.
R.Z. No, no, su questo tema non ci sono o non ci dovrebbero essere dubbi, l’analisi è un investimento. Tanto o poco, dipende da cosa vuoi investire, cosa vuoi fare. Le faccio un esempio: ammettiamo che io sia un allenatore, un personal trainer. Viene da me uno che mi dice: guarda, voglio andare a fare la mezza maratona a Milano, mi aiuti? È chiaro che imposterò un programma e prevedrò un tempo adeguato. Ma se arriva un altro e mi dice: scusa mi prepari per una salita sul Resegone? È evidente che la preparazione e il tempo saranno diversi. E se poi un terzo mi chiedesse di prepararlo per andare sul Monte Bianco, sarebbe tutta un’altra preparazione e tempo. È il paziente che decide dove vuole andare e che aspettative ha. Io cerco di fare alla meglio il personal trainer.
L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?
R.V. Mi piace, è suggestiva e affascinante. Diciamo che è incompleta perché la libertà è un fine, è ciò a cui auspicabilmente si arriva, ma il tragitto, il lavoro, può risultare al paziente in certi fasi pesante, doloroso, costrittivo, come se non fosse lui quello che ha scelto di andare in analisi. Nel complesso, certamente il senso di libertà personale, di libertà dalla croste identificatorie, dal conformismo, dalla gregarie, dovrebbe aumentare in un buon percorso analitico. Perciò l’analisi fa paura, come diceva Dostojevskij, gli uomini non vogliono la libertà, la temono come non mai.
R.Z. Parlare di libertà, soprattutto rispetto a sé stessi è sempre un po’ retorico. Diciamo che l’analisi aiuta ad essere più liberi. O meglio, a intravvedere la strada verso la libertà.
Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?
R.V. Il rischio è sempre non capire, non entrare in contatto con quella certa persona, sbagliare strada….sono momenti dolorosi. La professione analitica, poi, è piena di rischi: la solitudine, il carico transferale e controtransferale, oggi anche la crisi, essendo l’analista un professionista, è uno dei rischi depressivi, di crisi identitaria che l’analista corre.
R.Z. Credere di salvare gli altri. L’analisi è uno strumento nobilissimo che può aiutare chi lo usa a trovarsi, a conoscersi meglio. Soprattutto quella junghiana ci aiuta a conoscere l’ombra che ci avvolge. Potersi riconoscere, come dice Nietzsche nelle “Tre metamorfosi”, in un fanciullo cosciente della sua fragilità, ma anche della sua potenza che lo rende libero. Ma, bisogna volerlo e Platone lo disse già nel “mito della caverna”: la maggior parte delle persone preferisce stare nella grotta e conoscere la realtà attraverso le ombre. Non possiamo farci niente, neanche l’analisi ci può far niente.
Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?
R.V. Ha ragione. Nella seduta si incontrano due soggetti e i loro oggetti interni: gli oggetti parentali prima di tutto, ma non solo, tutte le identificazioni con gli oggetti perduti e con quelli attuali che ci portiamo dentro, che formano, costituiscono la nostra identità…..molti soggetti sono quindi sulla scena, la corrente narratologica dice molti personaggi, se consideriamo la seduta come un teatro dove l’inconscio si dispiega con tutti i suoi personaggi. il regista resta l’analista, la responsabilità della cura è la nostra.
R.Z. Durante la seduta si libera ogni tipo di fantasma. Il paziente può accarezzare i suoi archetipi, sicuro che l’analista è lì con lui ma, nel contempo, è saldo nella realtà. Mi piace evocare una immagine che noi tutti conosciamo: il padre che gioca libero con il figlio. Il padre, gioca, si diverte e non ha paura di faticare e sporcarsi, eppure mai per un attimo perde il contatto con la realtà. Se il figlio si mette in pericolo, lui subito interviene. Ed è lui, il padre, che detta i tempi del gioco. È questa la cornice del setting analitico, all’interno del quale tutto è possibile.
La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?
R.V. Secondo alcuni analisti, più fedeli alla metapsicologia freudiana, sì, la sessualità è centrale, e io posso in parte dirmi tra questi, anche se lavoro con modalità flessibile e tenendo conto anche di altri contributi; per molte correnti post-freudiane e contemporanee, come l’intersoggettivismo, la sessualità non ha alcun ruolo. Nella mia visione, una psicoanalisi che escluda l’immensa scoperta della sessualità infantile (quando parliamo di sessualità parliamo di psicosessuali), il gioco delle pulsioni e dei loro destini, non può dirsi psicoanalisi. Ma, come dico, gli orientamenti oggi sono diversi e non tutti tengono in uguale conto la psicosessualità.
R.Z. Dipende dagli anni del paziente e anche dalle sue tematiche. È chiaro che un adolescente fa i conti in maniera un po’ più coercitiva con la propria sessualità di quanto mediamente ne faccia una persona adulta. Jung distingueva due possibili analisi durante la vita dell’uomo, una fino ai quaranta anni e una poi. Nella prima essenzialmente bisognava arrivare a gestire le proprie pulsioni: libido e aggressività. Nella seconda analisi, in una età adulta, affrontare le tematiche legate all’individuazione, diventare sé stessi.
da: https://www.ilfoglio.it/filosofeggio-dunque-sono/2019/07/30/news/freud-e-jung-quale-analisi-267554/
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