Galimberti: il mito della verità
Ieri un amico mi ha suggerito la lettura dell’articolo di Galimberti sull’inserto “D” della Repubblica di sabato scorso dal titolo “Il mito della verità” in cui poneva una questione etica importante per ogni medico: è giusto nascondere la verità sulla sua condizione ad un paziente? È un quesito importante per ogni medico. Arriva sempre il momento in cui al professionista si pone il problema: glielo dico o no?
Galimberti scrive che la questione è tra la verità o la vita. O, detto più semplicemente, se dire sempre la verità aiuta a vivere o no. Egli nell’articolo sostiene che la menzogna è connaturata nella umanità stessa. Gli animali mentono per salvarsi la vita ma anche gli uomini da Ulisse con il cavallo di Troia, fino ai nostri bambini che crescono facendo finta di essere un giocatore di calcio, un astronauta, un esploratore di un’isola sperduta. Mille ruoli, mille personaggi, inventati ma in loro veri che li aiutano a crescere.
Galimberti dopo aver disquisito a lungo sul tema finisce l’articolo dicendo che Freud affermava che lo scopo della psicoanalisi è quello dello svelamento dei nostri desideri, pulsioni inconsce. Le bugie che il Super Io si racconta e che sono la genesi della sofferenza nevrotica.
La verità di casa mia
Torniamo al mio amico. Letto ciò che mi aveva suggerito mi ha chiesto così tanto per chiacchierare: ma tu cosa faresti in una situazione come questa dell’articolo? Gli ho risposto che in casa mia erano maestri della menzogna. Non ho conosciuto mia sorella fino a cinquanta anni, era figlia del peccato. A pensarci bene, erano degli specialisti della negazione. Il risultato è stato che ho respirato fin da bambino un messaggio: ciò che sembra vero, non lo è. Non avevo un fratello ma due. Conseguenza è, e questo è un paradosso, che le bugie dei miei genitori hanno ammorbidito il mio Super Io. Tendo a pensare che la verità non esista e tanto meno la possa dire agli altri. Poi però, sapendo di gettare un sasso, ho concluso dicendo al mio amico che non sono d’accordo con l’ affermazione di Galimberti, che la pratica della psicoanalisi ha come scopo lo svelamento della realtà inconscia. Questa è per me una ingenua esemplificazione. Quale realtà, quale verità?
Sapevo di aver buttato il sasso e in effetti il mio amico mi ha chiesto di spiegarmi meglio. In fondo, è un assioma che lo scopo della psicoanalisi è svelare ciò che l’inconscio nasconde. Diceva Freud che lo scopo della psicoanalisi è diventare padroni a casa propria.
La verità nella psicoanalisi freudiana
Gli ho risposto che partirei con l’osservare che l’affermazione di Freud sullo scopo della psicoanalisi è uno spartiacque tra un freudiano e uno junghiano. Il freudiano pensa che l’inconscio al momento della nascita è vuoto e viene poi riempito da tutto ciò che l’Io non ha trattenuto o riconosciuto, grazie all’intervento del Super Io che, come un grande censore, decide ciò che è buono da quello che non lo è, rimuovendolo nell’inconscio. Lo junghiano crede che l’inconscio non sia affatto vuoto al momento della nascita ma che, oltre alla parte personale che si depositerà da quel momento, contenga ogni informazione, esperienza, conoscenza che l’uomo ha fatto dal momento in cui è esistito, circa 200.000 anni fa: l’inconscio collettivo. Parlare allora di svelamento dell’inconscio è una ingenuità, onnipotente, simile alla leggenda medioevale che aveva come protagonista Sant’Agostino e un bambino. Leggenda peraltro che ha ispirato una tempera su una tavola presente al Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. Dice la leggenda che un giorno Sant’Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?» La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma il bambino, fattosi serio, replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero trinitario». Direi, mistero dell’inconscio. Non è un caso che Agostino scrivesse nella lettera 118: “non riesco a comprendere tutto ciò che sono”.
Alcune osservazioni epistemologiche sulla prassi psicoanalitica
Se le cose stanno così, si pongono allora a livello metodologico nella terapia psicoanalitica, rispetto all’affermazione di Freud, due temi: se l’inconscio è una realtà incommensurabile, a cosa serve la psicoanalisi? E ancora, nel setting analitico, quali sono i tempi dello svelamento della presunta verità contenuta nell’inconscio? Nella pratica psicoanalitica freudiana si parte dal presupposto che il terapeuta conosca prima del paziente la natura dei suoi disagi e aspetta che il paziente ci arrivi, pian, piano, magari ancora più piano, alla conoscenza, allo svelamento. È un delirio onnipotente dell’analista. Questa pratica parte dal presupposto che esista una verità interna che egli conosce mentre è velata al paziente. Quale verità? E poi chiediamoci: perché il paziente dovrebbe aspettare a conoscere ciò che evidentemente ha già detto? Escluderei che il terapeuta abbia capacità paranormali. Il terapeuta capisce quello che il paziente gli dice.
Caso clinico
Faccio un esempio: Giuseppe è un paziente di 34 anni, sposato da 13 anni, padre di due bambini. Da 9 anni frequenta un’amante, da quattro una terza donna e ora, e questo sembra essere il motivo che lo spinge da me, gli piace la maestra del suo bambino e non sa come comportarsi. Chiede a me cosa egli debba fare, gli rispondo che non lo so proprio. Perché dovrei saperlo? Gli dico però che potrebbe raccontarmi un sogno. Lo aveva già pronto e mi racconta che la notte prima aveva sognato che andava a scuola con il suo bambino e lui stesso era un bambino, ma lui aveva un maestro e provava per questo gli stessi sentimenti, desideri che provava per la maestra.
Mi sembra di capire che mi stia dicendo che la sua sfera affettiva è bloccata a una età preadolescenziale dove verosimilmente aveva preso contatto con pulsioni libidiche che in quell’età, lo stesso Freud, definiva totipotenti. Il Bambino non è né maschio né femmina. Ma il suo Super-Io non glielo permetteva né tanto meno glielo permette ora. Non a caso le fantasie sono dirette alla maestra o al maestro. Figure che rappresentano la legge, il controllo. Comunque è verosimile che si muovano nell’inconscio di Giuseppe complessi omosessuali bloccati all’età del sogno che forse ha tacitato con una attività eterosessuale molto attiva ma sicuramente poco maturativa.
Cosa avrei dovuto fare secondo la prassi freudiana? Tacere, al massimo chiedere al paziente cosa il sogno gli suggeriva e nel frattempo covare dentro di me l’idea che Giuseppe facesse i conti con tematiche omosessuali che lo obbligavano e spingevano verso comportamenti che avrebbero potuto portare al fallimento.
Alcune considerazioni sulla prassi junghiana
No, non è così. Dato e non concesso che le tematiche omosessuali ci fossero state veramente, sapevo che queste sono una piccola cosa rispetto al tutto. L’energia libidica trova nelle pulsioni sessuali solo una piccola parte della sua potenzialità ma soprattutto, se il paziente mi ha raccontato quel sogno, significa che “lui conosce” quella sua realtà interna. Lo racconta a me perché lo aiuti a vederlo. Perché dovrei sottrarmi a dirglielo? Se lo avessi fatto avrei implicitamente espresso che io sapevo, cristallizzando tutto sul tema della omosessualità. Significava perdere tempo nel tentativo di curare piccoli fantasmi.
L’individuazione
Il percorso di individuazione è lungo e costellato di piccole e grandi croci, difficoltà. Nessuna è insuperabile a priori. Il terapeuta non ha la verità e non conosce la strada che ognuno di noi deve percorrere per avvicinarsi all’individuazione. Può solo indicare di volta in volta con la luce tremula che gli viene dalle interpretazioni, ciò che lui vede permettendo, forse, al paziente di scegliere con più consapevolezza.
L’individuazione di ognuno di noi è sconosciuta a tutti gli altri, anche all’analista. Siamo soli. Nessuno, tranne noi, si può avvicinare alla nostra verità.
A proposito, anche nella prassi medica si dovrebbe sospendere ogni prognosi. Non serve e molto spesso è falsa. Mia madre ha avuto i primi oli santi, quelli che si danno ai moribondi, a 34 anni. Poi gliene hanno date ancora per 6 volte. Era gravemente ammalata.
È morta a 94 anni.