Ogni persona ha ciò che non vuole, e ciò che vorrebbe l’hanno gli altri.
L’ invidia nella letteratura psicoanalitica
L’ invidia è forse uno dei sentimenti più sgradevoli che proviamo. Nessuno dice: sono invidioso. Pochissime le persone che ne parlano apertamente riferendo l’ invidia a se stesse. Ammettere di provare invidia sarebbe rivelare al mondo la parte più meschina di sé ed è una cosa difficilissima per tutti. Perfino le persone che tendono ad autodenigrarsi e a svalorizzarsi difficilmente si autodefiniscono invidiose. Scattano meccanismi di difesa di tipo transferale e ci proteggiamo osservando e analizzando l’invidia negli altri, provando magari anche un profondo fastidio.
Sono invidioso: un sentimento universale.
La verità è che l’invidia è un sentimento universale che nessuno riconosce tanto facilmente, ma del quale difficilmente ne siamo totalmente scevri. Mi vengono in mente due detti popolari, il primo è danese e dice: “Se l’ invidia fosse una febbre, tutto il mondo sarebbe ammalato”, il secondo “Ci sono cose che un individuo non confessa né al prete, né allo psicanalista, né al medium dopo morto e fra queste cose la prima è senza dubbio l’ invidia”. Sapienza popolare. Infatti in analisi riconoscere di essere invidiosi è sempre una tappa difficile ma significativa verso la soluzione.
Il problema che ci poniamo è: perché è così universale l’ invidia e perché è così difficile riconoscerla?
Per farcene un’idea, rimanendo nel campo che ci compete, la psicoanalisi, dobbiamo ammettere che forse sul piano dell’ invidia ci battono in pochi. Eppure non dico che dovremmo essere superiori, ma almeno un po’ consapevoli, smaliziati, forse si. Invece no, anche all’interno della psicoanalisi stessa, “tra gli addetti ai lavori”, rimuoviamo e ci difendiamo come possiamo da una invidia un po’ onnipresente. Non solo a livello personale, quello è un campo dove ognuno se la vedrà per conto suo, ma sui concetti stessi, le basi della psicoanalisi.
Credo non ci sia persona che si è avvicinato, anche poco, solo per curiosità, alla psicoanalisi e non abbia sentito parlare di “invidia del pene”.
L’ invidia e Freud.
Scriveva Freud: “le ragazze sentono profondamente la mancanza di un organo sessuale di egual valore a quello maschile, esse si considerano inferiori e l’ invidia del pene è il motivo principale di un certo numero di caratteristiche reazioni femminili“. (Tre saggi sulla teoria sessuale .1905)
Per Freud sono le donne che provano invidia nei confronti degli uomini. Per lui, l’invia del pene è il motore dello sviluppo della psicologia femminile. Tale invidia infatti lascerebbe nel carattere della donna condizionamenti incancellabili che sarebbero la traccia per la formazione e lo sviluppo psico-sessuale.
Oggi nessuno dà più a questa teoria un credito che va oltre il riconoscimento storico dello sforzo di collegare i loro comportamenti sessuali all’isteria. Nella Vienna fine ‘800 la donna era fortemente subordinata all’uomo e appariva come il capro espiatorio di una società dove la libido era quasi totalmente negata, sia per gli uomini che per le donne.
In realtà sintetizzare questo disagio nell’ invidia del pene era un meccanismo, da parte dei “maschietti”, di difesa dalle loro invidie che chiaramente negavano.
Alcune note di storia.
Ad esempio, lo sapete che per gli antichi ebrei la prima moglie di Adamo non fu Eva ma Lilith che fu ripudiata e cacciata via da Adamo perché si rifiutò di obbedirgli? Adamo pretendeva di sottometterla sessualmente e Lilith, per non essersi completamente assoggettata a lui viene cacciata. Diventerà la madre dei demoni, povera Lilith. Da quel momento nella sua evoluzione assumerà le varianti di tutte le Dee più negative come le Arpie, le Erinni e poi le Streghe. Tutte queste non sono altro che il frutto di un’identificazione proiettiva negativa della coscienza maschile nei confronti del femminile.
Vi sembra strano, una esagerazione mitica che però poco ha a che vedere con la realtà?
L’invidia e la religione.
Non è vero. Quando ero piccolo e facevo il chierichetto, anni fa ma non secoli, negli anni ’60, ricordo che quando c’era un battesimo e la famiglia portava in chiesa il bambino per il battesimo, prima che si aprisse la porta centrale per fare entrare il battezzando con il padre e i padrini, il prete andava nella porta laterale dove l’attendeva la madre con in testa il velo nero. Il prete l’accoglieva con la stola viola dei penitenti, la esorcizzava e la accompagnava all’altare laterale della chiesa dove doveva restare in ginocchio e in preghiera. Poi, senza la madre, si apriva la porta centrale ed iniziava il battesimo. La madre, la grande seduttrice, se ne stava là in disparte, col capo chino a chiedere perdono.
E’ evidente quanto l’archetipo femminile nel corso della storia, ma soprattutto nella storia delle religioni, sia stato, con questo meccanismo di identificazione proiettiva, deturpato dalla coscienza maschile. Da che cosa si difende l’uomo? Evidentemente dall’invidia per le prerogative fecondatrici del femminile. La donna è vissuta come potenza assoluta di vita e di morte.
Quindi, la donna invidia il fallo, l’uomo invidia la possibilità creatrice della donna. Possiamo quindi sintetizzare che gli attacchi invidiosi hanno tutti un comune multiplo denominatore: la potenza creativa.
Scriveva Aldo Carotenuto che “l’ invidia è la grande antagonista della creatività”. (Trattato di Psicologia Analitica)
E’ questa di Carotenuto la lettura dinamica che più mi convince anche da un punto di vista clinico: l’invidia come sottrazione, incapacità a riconoscere la propria capacità creativa.
Invidia e creatività
Invidio la capacità creativa dell’altro, dell’altra e nel contempo non riconosco e uso la mia.
“E’ sempre verde l’erba del vicino” e magari, non ho mai calpestato quella del mio giardino.
E’ anche vero che a questo punto si apre un’altra questione che evidentemente è un tutt’uno con il meccanismo dell’invidia: la difficoltà ad abbandonare fantasie onnipotenti. Se voglio riconoscere e usare la mia parte creativa, devo riconoscere di essere limitato. Ho bisogno dell’altro, dell’altra per creare ed è evidente che non mi riferisco solo alle capacità di ordine biologico.
E’ vero quindi che l’invidia è un sentimento universale, primario e antico che svela l’incapacità ad accettare di essere limitati e nel contempo l’impossibilità ad utilizzare ciò che abbiamo.
Ora si capisce perché tanta ritrosia a dire: sono invidioso. Riconoscerci invidiosi ma forse, più che vergognarci faremmo bene ad impegnarci a scoprire come utilizzare le nostre capacità creative.
Contatti:
Lo studio del Dott. Renzo Zambello è in via Amico Canobio 7, CAP 28100 Novara. Cellulare 3472282733, Aperto dal lunedì al venerdì dalle ore 8 alle ore 19 .
Di Renzo Zambello il libro ” Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista “ Ed. Kimerik
Dott. Zambello, questo articolo mi ha fatto venire in mente anche Medea, che uccide i figli in un delirio di onnipotenza per punire il padre di questi. Ma anche, venendo ai giorni nostri all’aborto. Mi sono sempre chiesto perchè lo stato, non impieghi più risorse per dare aiuto a tante madri sole, che si trovano magari ad affrontare la gravidanza da giovanissime e malconsigliate abortiscono. Parlando di questo con amici e colleghi ne è venuto fori che sarei un ultraconservatore della peggior specie. Mi chiedo, ma sono io il conservatore, o coloro i quali, pur di non far nascere un figlio (il nuovo, una nuova alba) lo sopprimono (certo di sono situazioni disparate, qui sto facendo un discorso puramente generico)? Non è questo assimilabile a un altra leggenda, quella di Saturno che mangia i figli per paura di non essere detronizzato? E anche Erode… le onnipotenze, si possono vedere anche in tante fasi senex della nostra società, anche ad esempio nella classe politica che lascia poco spazio ai giovani, o nel lavoro. Non ci avevo mai pensato, che sotto a tutto questo ci fosse l’invidia! E’ interessante tralaltro notare come forse l’uomo eserciti la sua onnipotenza (e invidia della capacità procreatrice femminile) nel femminicidio, e la donna nell’aborto o nell’uccisione dei figli piccoli, come in alcuni casi di cronaca italiana. Il riconoscimento delle nostre diversità e bellezza delle nostre capacità, penso sia un passo importante verso l’espressione come dice lei, della nostra creatività. Grazie per l’interessante articolo!
Grazie Davide e, ancora auguri.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa dell’articolo che ho pubblicato ieri:
http://www.psicoterapiajunghiana.com/inconscio-collettivo-web-dipendenza/
Grazie! Me l’ero perso, le ho risposto direttamente nell’altro articolo.
La nostra, mi permetto di ipotizzare, è la cultura dell’invidia.
Si alimenta l’invidia attraverso il confronto: veniamo giudicati e valutati non appena nasciamo.
Crescendo si cerca di dimostrare il proprio valore agli altri prima, per confermarlo a sé stessi, poi.
Sa cosa invidio più di tutto?
Il successo di chi percepisco inautentico:spesso mi percepisco inautentica, ma senza successo.
Ecco che il riconoscimento della propria autenticità diventa la cura alle continue condanne, che ci infligge un certo inconscio collettivo, quello della nostra cultura, appunto.